Il sesto trionfo a Wimbledon, il 15mo (record assoluto) in uno Slam. Ma Federer può essere al massimo definito il più grande del suo tempo. Come dice Laver
WIMBLEDON - Alla fine di un match di 4 ore e 16 minuti, soffocato a tratti dalla preoccupazione di non riuscire a battere un avversario che aveva dominato diciotto volte su venti incontri, Roger Federer è riuscito a farcela , raggiungendo così il record di quindici vittorie nei tornei del Grand Slam, i quattro maggiori campionati del gioco. Vi è riuscito mentre, dalla tribuna ducale, lo applaudiva lo stesso Sampras, e mentre, nel suo abituale fair play, indirizzava un pensiero a Nadal che, infortunato, gli aveva indubbiamente facilitato di molto il compito. Quanto allo scriba, come gli amici anglosassoni amano definirmi, ho da sempre, ritenuto che il plagio di se stessi sia una sorta di marchio ante mortem: mi è accaduto spesso di verificare simile, triste vicenda negli scritti di amici, anche grandi. O di grandi scrittori tout court. Mi vedo tuttavia costretto a ribattere per la decima volta la stessa storiella, in fondo banale. Costretto - dicevo - a ribadire che il più grande tennista del mondo esiste soltanto nella mente frettolosa di chi non ha mai letto, né scritto - figurarsi - un libretto di due chili e mezzo, tradotto in sei lingue, alla fine di tre anni di studi: non lontano da qui, nella sacra Northern Library del British Museum.
Ai tempi in cui vivevo a Londra nella veste di vice del vice corrispondente del Giorno appena nato.
Costretto a scrivere che quel meraviglioso tennista di Federer non può essere ritenuto il Messia, è come dire a un fervente cattolico che, prima di Gesù, si possono contare sulle dita di due mani altri profeti, non meno santi, non meno ecumenici. Affermazione che, oggi giorno, consente alfine di non venir considerato eretico, e nemmeno gettato su un falò. Ritenersi più adatti a praticare il buddismo non nega certo il cattolicesimo.
Ma scendiamo di tono, parliamo del nostro giochino con la palla e la racchetta. Di questo nostro giochino Federer è certo il più grande degli ultimi anni. Intatto dagli incidenti che tatuano tutti i suoi avversari della decade, baciato dall'ispirazione, incantevole nello stile, esempio di educazione, grazie anche ad un paese che andrebbe preso ad esempio per molti - non tutti - i suoi aspetti. L'unica riserva sulla sua contemporanea superiorità assoluta si chiama Rafa Nadal, un ragazzone capace di mutare la gestualità del gioco, in grado di battere Federer 13 volte su 20 incontri, e di negargli l'indispensabile accesso al titolo del Roland Garros sino al giorno di un incidente che non accenna, per ora, ad abbandonarlo.
Lasciamo ai miei colleghi spagnoli simile riserva, per altro più che fondata, e andiamo a ridare un'occhiata al passato. Ricordando, anche, che sino al 1973 i tre quarti dello Slam si disputarono su erba. Ripeto, per la centesima volta, che il parametro del talento tennistico fu, in teoria, stabilito soltanto nel corso dei Campionati degli Stati Uniti nel 1933, quando due giornalisti, Kieran del New York Times, e Danzig del Brooklyn Eagles, rinvennero nella consuetudine del bridge la definizione di Grand Slam. L'australiano Jack Crawford, che mancò il poker, era stato uno dei primissimi ad affrontare le due traversate atlantiche per partecipare a tutti i quattro grandi tornei. Prima di lui non l'avevano mai compiuta autentici geni del gioco quali l'inglese William Renshaw (7 Wimbledon) e altri grandi, che nemmen potevano visitare Parigi se non per il Louvre: il Roland Garros iniziò ad esistere infatti nel 1925.
Questa storia del Grand Slam divenne ancor più improbabile dal giorno in cui prese ad esistere il professionismo nel tennis, con la Divina Suzanne Lenglen, nel 1926. Altra che non era mai arrivata in Australia, e una sola volta negli Usa. Contemporanea del grandissimo Tilden, il primo prof di sesso maschile - vabbè, bisex - che vinse dieci Slam, venendo a Wimbledon tre volte, altrettante in Francia e non sbarcando mai in Australia. Ma, a questo punto della mia ricerchina - o meglio ripasso - nella vicenda si insinua l'avvento del professionismo. Quasi ogni anno, a partire dal 1937, il miglior tennista del mondo firma un contratto, dapprima con la troupe Tilden, poi, nell'immediato dopoguerra, con quella di Jack Kramer, e gli viene rigorosamente inibita la partecipazione agli Slam.
Aperti soltanto a dilettanti presunti puri e pagati in nero. Accadono dunque vicende che dovrebbero far riflettere tutti gli ignari di storia. Kramer, ad esempio, vince la Davis nel 1939, va soldato, ritorna nel 1946 per vincere Wimbledon smarrendo il minor numero di games della storia, trentasette, e, dopo tre Slam, diviene prof nel 47. Da quel giorno, il vincitore degli Slam non è più, se mi credete, il miglior tennista mondiale, ma soltanto il miglior dilettante. Di là dalla barriera, ci sono sempre cinque o sei prof che lo batterebbero. Giungiamo a dei casi estremi, come quello di Rosewall, che non viene ammesso a 44 titoli Slam, vincendone così solo 8, prima e dopo la parentesi prof. E alla vicenda di Laver, unico autore di ben due Grandi Slam (tutti e quattro gli Slam dell'anno) '62 e '69, bloccato a undici titoli da cinque anni di professionismo.
Proprio Laver ha detto ieri quel che già mi aveva già confidato in Australia: "Non esiste il miglior tennista di tutti i tempi. Esiste il migliore del suo tempo". Magari, aggiungo, Nadalis genu adiuvante. Ecco dunque che a Federer si può attribuire, con infinita ammirazione, il titolo del migliore di un decennio. Ma sicuramente non quello del migliore della storia del lawn tennis, che è iniziata qui, nel 1877. Da troppi anni per essere dominata da un solo tennista, ancorché geniale come Roger.
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a proposito del "piu' grande di tutti i tempi"...