7 aprile 1944: Bombardamento su Treviso

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enricotv
00martedì 7 aprile 2009 12:29
Bellissime le foto.
Questo invece è un resoconto che mi ha colpito molto.


www.italia-rsi.org/cyberamanuensi/fanton/innocenti.htm

INNOCENTI: I bombardamenti su Treviso
Trascritta dal cyberamanuense Bruno Fanton



Mancavano circa 5 minuti alle 13 quando suonò la sirena d'allarme. Diversamente dal solito papà decise di allontanarsi dalla città anzichè dirigersi ai rifugi antiaerei e portò me e le mie sorelline, oltre il cavalcavia della stazione, puntando verso Sant' Antonino e la campagna che si stendeva tutt' attorno. Non avevamo ancora terminato di discendere la rampa ferroviaria che i pezzi della difesa contraerea presero a tuonare; scheggie e frammenti cadevano ogni tanto al suolo e noi camminavamo rasente ai muri per evitarli. Bimotori da caccia a doppia trave di coda, inequivocabilmente americani, saettavano velocissimi nel cielo, in ordine sparso, inseguiti dalla contraerea pesante.
Poi si allontanarono puntando verso nord-ovest e i cannoni tacquero. Un caccia puntò verso terra avvolto in una scia di fumo nerastro. Era dei loro o dei nostri, alzatisi da Sant' Angelo? Un silenzio poco convincente.
Pochi minuti dopo, verso le 13.07, dalla parte del mare, emersero dense formazioni, altissime, di quadrimotori da bombardamento. Di quegli stormine avevo visti passare tanti, diretti in Austria e Germania, e li riconobbi come "Fortezze Volanti". Ma stavolta venivano da noi, inequivocabilmente. Io e i miei cari stavamo entando in una casa colonica, dove già si ammassava una trentina di persone, oltre ai contadini stessi che vi abitavano; tutti sbirciavamo il cielo e gli occhi puntati verso la densa marea argentea percepirono il distaccarsi dalla fusoliere di quelli, che da terra, sembravano i "carboneti", classiche mini-caramelline costituite da minuscole losanghe di liquerizia: erano le bombe! Uno sciame! E sembravano dirette proprio su di noi!
Uno dei presenti uscì di gran carriera di sotto il portico e si tuffò dentro la siepe di recinzione. Gli altri si accovacciarono sul piancito dietro l' effimera protezione delle pareti domestiche. La bomba, forse la prima in assoluto, esplose in mezzo al campo antistante con un fragore di tregenda, scagliando in aria tutt' intorno quello che sembrava essere l' intero campo stesso: terra ovunque! Lo spostamento d' aria sminuzzò letteralmente le lastre di vetro delle finestre; le suppellettili cadevano dai mobili, le bottiglie, i vasi, le terraglie precipitavano dalle scansie infrangendosi sul pavimento, il vasellame di alluminio rotolava. Il suono assordante e ininterrotto delle esplosioni si spostava lentamente verso nord-ovest ma sembrava non conoscere tregua: ad ogni colpo il pavimento si sollevava e, con esso, quanto vi era caduto precedentemente. Durò forse una decina di minuti, ma sembrarono interminabili.
Poi anche i colpi della flak si affievolirono e quindi non si udì nemmeno più il rombo dei motori, salvo quello di un piccolo ricognitore tedesco che si era messo a sorvolare le macerie, molto basso.
Uscimmo tutti all' aperto ma la bella giornata, tersa e azzura, sembrava non essere mai esistita: una pesante coltre grigia di fumo e di detriti sospesi aleggiava sulla città di Treviso impedendoci financo di intravvedere il disco del sole. Emergeva pietosamente un moncone del campanile della chiesa di Santa Maria Ausiliatrice, nota ai trevigiani come "Tempio Votivo", mentre tutt' attorno il rimanente era stato spazzato via. Quartiere compreso. Ci dirigemmo come allucinati verso la città e vedemmo correrci incontro una massa di persoone terrorizzate, coperte di polvere, fango, affumicate, lacere, insanguinate che correvano con le braccia rivolte al cielo gridando "I ne gà copà tuti". Pensando a mia nonna, a mia madre, a mia sorella maggiore, corsi verso il centro urbano, entro mura: ma già ai piedi del cavalcavia di Sant' Antonino i cumuli di macerie ancor fumanti impedivano il transito. Bisognò scalarle. La linea ferroviaria presentava uno o due rotaie spezzettate e parzialmente divelte, qualche traversina macinata; il resto era a posto come prima, tranne l' edificio destinato al traffico passeggeri. Poche ore dopo (papà lavorava alle ferrovie) il viavai militare germanico sarebbe ripreso normalmente. Sembrava incredibile ma la volontà di comunicare con i propri cari aveva preso il sopravvento anche sulla paura: già sui portoni in legno dei pochi edifici pubblici della città rimasti precariamente in piedi si vedevano fogli di quaderno, frammenti di blocchi-note, cartine da sigarette, vergati con grafia incerta e tremolante, in matita, con su scritto il nome e cognome e un "sono ancora viva" o "sono vivo" sottolineato più volte, oppure "venite a cercarmi Vostro Attilio", applicati con puntine da disegno, forcine da capelli, spilli, persino puntine da grammofono! Drammaticamente mancanti di indirizzo. Apprendemmo così che mamma e sorella erano salve, ma per il momento introvabili. Nemmeno loro avevano saputo segnalarci, via bigliettini, dove avrebbero avuto il coraggio di andarsi a rifugiare. Le avremmo rintracciate due giorni dopo, prima del "trasloco". Far "San Martin" di aprile: che disdetta! Giunti quasi a casa incrociammo alcuni ufficiali della G.N.R. che - pistola in pugno - con gli occhi fuori della testa dall' emozione - cercavano di dirigere tutti gli uomini validi verso i rifugi crollati e continuavano a ripetere "Scavate, scavate!". Con che cosa poi non si sa.
Le squadre dell' UNPA già per conto loro si prodigavano al massimo, compresi i pompieri la cui caserma sembrava essere stata inghiottita da un cratere enorme, ma a colpo d' occhio pareva che della città nulla fosse rimasto in piedi: alcuni edifici apparentemente illesi erano tali solo nella facciata anteriore, come nei saloon dei film western: tutto, dietro, era crollato!
Mio padre si fece forza della propria tessera di ferroviere dicendo che doveva recarsi immediatamente allo scalo merci e così non fummo più disturbati. Giunti a casa la prima cosa da fare fu quella di prendere chiodi, martello e qualche asse divelta e chiudere "alla buona" portone e balconi. Poi, dopo aver esplorato la città in cerca delle "donne di casa", senza esito, ed aver assistito a scene raccapriccianti e aver constatato l' inefficacia dei rifugi in cui centinaia di persone avevano trovato orrenda morte, tornammo a dirigerci verso "i campi", temendo una successiva incursione, paventata da papà che aveva notato i danni irrisori agli impianti ferroviari, da buon dipendente di ventennale esperienza.
Nuovamente abbandonammo Sant' Antonino, volgendo ancora una volta uno sguardo pien de lagrime al tempio abbattuto, e ci inoltrammo per campi in direzione di Casier, testa bassa, coperti di polvere: vabbè che era il Venerd' Santo, ma di cenere ne avevamo ricevuta sin troppa!
Passammo a guado un fossato, profondo, di acqua fredda: papà in mezzo e i bimbi alzati a braccia sopra il capo; era la prima settimana di aprile ma il freddo pungeva ancora. Subito dopo un' alta e fitta siepe, si ergevano a 75° verso il cielo, quattro lunghi cannoni, di quelli che ci avevano difeso dai pirati argentei.
Comandante e serventi, tutti tedeschi, ci guardavano come se avessero visto dei fantasmi. Sicuramente non costituivamo un bellospettacolo...
La curiosità fu più forte del timore e mi avvicinai fino a contare i numerosi cerchi bianchi che ornavano il vivo di volata del pezzo più vicino, che riconobbi come un "famoso" otantaoto. Aveva attorno più bossoli vuoti lui che "mocoli" l' altar maggiore di una cattedrale. Passo dopo passo, uno mio, uno suo, un graduato della flak veniva verso di me con un sorriso bonario. Blaterammo poche parole; lui, in un gutturale italiano misto a dialetto veneto; io con quelle poche parole di tedesco apprese dai libri. Un attimo di incertezza: cossa voralo dirme? Mi fece un inequivocabile cenno di rimanere ad aspettare un attimo; entrò in una specie di baracca-tenda, mimetizzata perfettamente col terreno circostante, parzialmente infossata nel terreno, e ne sortì velocemente con un involto in carta da pacchi color "avana" che mi tese con un sorriso, fatto più con gli occhi cerulei che con la bocca. Subito dopo mi fece cenno di allontanarmi, e con me il resto dei miei famigliari, che erano rimasti un po' in disparte, come imbambolati.
Non avevo fatto nemmeno tre passi che superai il mio imbarazzo e scartai la cima dell' involucro, scoprendo, con un tuffo al cuore, che si trattava di un' enorme forma di pan di segale, di quello in uso nelle mense tedesche. Roba da un paio di chili. Nero, profumato. O almeno cos' sembrava ai miei 15 anni.
Alla successiva casa colonica, no so quanti campi pì ' vanti, ci fermammo a chiedere asilo; erano già stracarichi: "Dove voeu che ve metemo, fjoi, sèmo zà pieni..." ed in effetti ce n' erano, di "sfollati". Il termine lo si conosceva già, dato che sin dal primo anno di guerra avevamo ospitato quelli che si erano spostati a Treviso da Genova, Torino, Marghera. L' unico posto coperto che rimaneva era "el punèr de le galine". Mandammo i ruspanti volatili da cortile, nonostante le loro legittime rimostranze, a dimorare sui rami dei vicini alberi e occupammo il pollaio, protetto da tre lati e ricoperto da un ondulato di "eternit", lo spazzammo ben bene e livellammo il "pavimento"; il capofamiglia arrivò con i figli e alcune balle di fieno perfettamente asciutte e legate col fil di zinco che disponemmo a giaciglio. Vide il pane nero tedesco e disse "Cò queo e basta, ve inciuchè!". Riapparve una delle figlie, dopo pochi attimi, quasi incespicando sulla lunga "traversa" bianca, con una pentola di latte caldo.
Il giorno dopo concordammo, e fu una fortuna riuscirci, per il trasporto delle masserizie di casa con un "carriotto" che aveva un veicolo a traino animale, ma con le ruote gommate: ottimo per non sciupare le masserizie. L' enorme cavallo bianco tirava come un carterpillar. Al comando cittadino della Milizia, ove ora è situata la stazione dei carabinieri, ricevemmo un sussidio, equivalente a circa 6-700 mila lire di adesso, per le prime esigenze, e ci portammo, attraverso il "passo a barche" di Cendon di Silea, con la chiatta che traversava seguendo una gomena d' acciaio, in riva opposta e poi fino a Zenson di Piave, dove una famiglia nobile ci accolse generosamente nell' unico spazio libero rimasto: el granèr. Il resto della magione era occupato da famiglie di israeliti fuggiti da Venezia. In un battibaleno il sottotetto fu ripulito da pannocchie e granaglie e presero posto reti e materassi, una credenza, il tavolo di cucina, quanche sedia e la stufa, il cui tubo venne fatto sporgere da un foro tagliato ad arte col "diamante" sul vetro dell' unico finestrino presente nel locale, che misurava all' incirca 10 metri per 6. Rimanemmo colà sino a guerra terminata. Io e un fanciullo un paio d' anni più grande di me ci facemmo le spalle dure andando a segare le robinie lungo i confini dei poderi; con una sega a due mani, sceglievamo quelle di 15-20 cm. di diametro. La "gazia" brucia bene anche se "verde", e nell' inverno 44-45 il freddo era insopportabile. Una volta ci sorprese il fattore: io che avevo le spalle cariche non potei scappare: lasciai cadere tutto a terra e venni preso per la collottola: quando spiegai chi ero e in quali condizioni si trovava la mia famiglia, l' uomo ruotò sui tacchi e si allontanò a testa bassa, fingendo ancora di essere un burbero e mugugnando "Ma che sia l' ultima volta!". Non dimentico una notte di marzo del 1945, quando dagli argini del Piave si poteva leggere il giornale alla luce di Treviso, ancora una volta martirizzata, accecata ed arsa delle bombe incendiarie: dulcis in fundo, il colpo di grazia finale ce l' aveva dato il "bomber command" della RAF, specialista in materia. Incenerendo le poche rovine rimaste.
Poi, il 30 aprile, arrivarono i liberatori.


NON DIMENTICHERO’ MAI LA TRAGEDIA DEL 7 APRILE Oggi e domani le commemorazioni. Il drammatico racconto di Alberto Durigon
Fabio Bruno
Trascritta dal cyberamanuense Bruno Fanton



Domani, saranno anche quest' anno le campane della torre civica a ricordare ai trevigiani l'anniversario del 7 aprile, il giorno in cui la città venne rasa al suolo nel primo e più duro dei bombardamenti alleati che conobbe durante la seconda guerra mondiale. I lenti rintocchi inizieranno alle 13.05. Contemporaneamente l'"Associazione 7 aprile 1944" allestirà nella zona di Piazza dei Signori una piccola mostra fotografica. Altri momenti riservati alla memoria saranno le messe celebrate alle l0 alla chiesa Votiva e alle 17 al Tempietto della Madonnetta. Alle 17.30, l'Osservatorio Antelao presenterà alcune testimonianze a Ca' dei Carraresi, mentre alla sera nella chiesa di San Nicolò sarà eseguito il Requiem. Alcuni appuntamenti sono già previsti per oggi: alle 17 80 a Ca' dei Carraresi ci sarà la commemorazione da parte dell'" Associazione 7 aprile" mentre alle 20.45, presso l'Istituto Magistrale, la Società iconografica ha organizzato "Radiografia di un bombardamento inutile" con proiezione di filmati originali. Centocinquantanove aereoplani, quasi 8000 bombe; in pochi minuti la città quel giorno fu stravolta, distrutta all' ottanta per cento, pagando con 1600 morti il suo tributo di sangue. Ma anche con molti dispersi.
"Un mio conoscente stava mettendosi in salvo con due militari - ricorda il trevigiano Alberto Durigon, oggi settantacinquenne - dopo un'esplosione non riuscì più a capire che fine avevano fatto". Dove si trovava lei quel giorno? ."Ero impiegato del distretto militare. appena trasferito a Villa Passi a Carbonera. Eravamo appena entrati nella vicina osteria per mangiare, quando abbiamo sentito prima le mitraglie e poi dei rombi assordanti. Fuori in cielo si vedevano solo aerei. A casa, in via Polveriera avevo la famiglia e ho subito pensato di raggiungerla" Cosa ha visto nel tragitto? "A Ville delle Rose c'erano
già tanti feriti e cadaveri lungo le strade. Man mano che proseguivo era sempre più un'apocalisse. Passato malamente Ponte Garibaldi non riuscivo più a capirmi finchè mi sono reso conto che non c'era più la Chiesa Votiva; vedevo il vuoto". E a casa?
"Casa mia era in piedi ma sventrata in alcune parti, Quelle dei vicini non c'erano più; tutti gridavano. Mia madre e la morosa di mio fratello si erano salvate. Una famiglia più avanti, si chiamavano Da Re, erano morti tutti e quattro". Poi è sfollato?
"Con un carretto trasportammo i nostri mobili. Davanti alla stazione ci urtò un camion dell’ UNPA: Quel giorno ebbi i danni che non fecero le bombe. Andammo prima a San Pelajo.
Poi trovammo un locale a Madonna Granda: col bombardamento notturno successivo che distrusse la basilica dovemmo lasciare anche quello. Tra mille peripezie riuscimmo a sistemarci a Carbonera fino alla fine della guerra". Pensa spesso a quei giomi?
"Sempre. C'era una strage di morti, famiglie che non trovavano più i loro cari. Noi senza casa eravamo quasi tra i più fortunati. Per giorni in città si è respirato odore di morte e macerie; non si può dimenticare. Più di una volta ho avuto il desiderio di parlare con qualcuno di quelli che hanno deciso di bombardare una città inerme. Quegli aerei si chiamavano liberatori ma la liberazione l'ha vista solo chi è rimasto vivo".

TV DOSSON
00martedì 7 aprile 2009 14:32
onore ai caduti,le foto veramente meravigliose,io il passato non lo dimentico.Alleati si si si........americani brava gente si si si...
Razza Piave non molla.
Murdock FBC
00martedì 7 aprile 2009 22:41
onore ai caduti trevigiani!!
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